lunedì 26 febbraio 2024

I want it darker, my Lord

 Leggerezza, questa la parola chiave. Ciò che in passato era oscuro, dark, misterioso adesso si è trasformato in qualcosa di leggero. Leggero, ma non senza senso.

Ci si gioca, con la leggerezza, pur se i ruoli imporrebbero pensieri più ponderati. Come sempre, c'è un gran compiacimento ma stavolta anche paura. Il tempo passa e non c'è modo di girarci intorno. Hai voglia a gettare ancore, tessere fili, costruire ponti. 

Il tempo passa e “tu non passi mai”: un'illusione per raccontarsi di essere giovani per sempre, in grado di far tutto, di aver tutto, di vivere tutto.

You want it darker, cantava Cohen. Forse quelle esplosioni - di rabbia, di passione, di orgoglio - erano meglio della leggerezza di oggi. Perchè dovevano pur consumarsi, implodere. I vampiri morivano, trafitti al cuore dalle promesse infrante. Il buon senso avrebbe imposto di sigillare le casse, ma una curiosa morbosità l'ha impedito.

Sappiamo come entrare e come uscire da una storia che non esiste per nessuno al mondo, ma non sappiamo come chiamarla. La leggerezza è pericolosa. Ti fa credere di avere il controllo e devi essere molto attento a non valicare confini dai quali non c'è più ritorno. Confini mentali, intendiamoci. Invece, non c'è odio e non c'è amore; non c'è rancore e non c'è pace; non c'è oblio e non c'è contatto; non c'è passato e non c'è futuro. Si vive nel limbo di un arrivederci.

Voglio essere Noodle nella fumeria di oppio per non dover scegliere tra realtà e illusione perché risposte non ne ho.Risposte. Quelle ci vorrebbero. Ma rispondersi significa definire, chiudere, stigmatizzare. Paura del vortice del tempo che passa e tutto copre. 

Cohen aveva ragione: You want it darker, my Lord.


“Gli amanti, quelli veri, non condividono un letto ma custodiscono un segreto.” Pablo Neruda


domenica 19 marzo 2023

Il danno di J. Hart - una personalissima recensione

“C’è un paesaggio interiore, una geografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita. Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l’acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa. Alcuni lo trovano nel luogo di nascita; altri possono andarsene, bruciati, da una città di mare, e scoprirsi ristorati nel deserto. Ci sono quelli nati in campagne collinose che si sentono veramente a loro agio solo nell’intensa e indaffarata solitudine della città. Per qualcuno è la ricerca dell’impronta di un altro; un figlio o una madre, un nonno o un fratello, un innamorato, un marito, una moglie o un nemico. Possiamo vivere la nostra vita nella gioia o nell’infelicità, baciati dal successo o insoddisfatti, amati o no, senza mai sentirci raggelare dalla sorpresa di un riconoscimento, senza patire mai lo strazio del ferro ritorto che si sfila dalla nostra anima, e trovare finalmente il nostro posto.” J.Hart


Credo che, a prescindere dal fatto che possa piacere o meno lo stile della Hart – poetico, evocativo eppure algido, di elegante bellezza formale – Il danno diventa parte del proprio intimo immaginario se ci si è trovati nella stessa condizione descritta dal protagonista nelle prime righe: aver cercato, e magari trovato, la propria geografia dell’anima.

In genere, avviene con una devastazione o con un’epifania. Da un incontro, come nel libro. Poi, bisogna decidere cosa fare della scoperta. Appagarla. Domarla. Consumarla. Implodere con essa. Ignorarla. Io, per esempio, ho imparato a tenere a bada il demone, Stephen no. Sia chiaro: qui il punto non è Anna. Anna è un pretesto, andare a letto con Anna è un mezzo. Ciò di cui Stephen ha bisogno è il dolore di Anna, quel farsi schiava di Anna, il dominio assoluto su Anna – ma ne siamo poi certi? – per perdere quello di sè stesso. Tutto, sempre. Troppo.

C'e' un party, e ci sono uno scambio di sguardi e una semplice presentazione. Mi ricorda qualcosa di molto personale: il mio patto col diavolo. E però io, non tanto per meriti quanto per circostanze, son riuscita a elaborare e a incorporare – regalandomi solo una sconsiderata perdita dell’innocenza; Stephen, invece, siglerà quel patto col sangue del figlio, l’incolpevole, la vittima, colui che – con il suo inconsapevole sacrificio – libererà Anna del suo ruolo e crocifiggerà per sempre il padre al proprio grumo di dolore.

L’ho detto e lo riscrivo: Il danno è uno di quei libri spartiacque. C’è un prima e c’è un dopo averlo letto. Letto poi non è forse la parola giusta nel mio caso. Io mi ci son buttata a capofitto, ho corso a perdifiato tra le pagine, ne son stata ossessionata per due giorni e due notti, mi è venuta quella specie di febbre che mi prende quando leggo libri intensi e devastanti. Vivo in una sorta di momento rarefatto e benedetto, in cui posso gustare ogni parola, ogni virgola, ogni pagina perché la quotidianità rallenta e “ammalarmi” mi permette di vivere solo in funzione di quello che accade tra le pagine. Il danno è un libro da febbre, ma soprattutto da delirio – ecco. Come lo son stati Una manciata di more, Cime tempestose, La casa degli Spiriti, Fight Club, L’alcol e la nostalgia. Se potessi scegliere un modo per appagare la mia vanità, quel modo sarebbe sicuramente aver scritto io uno di quei romanzi. Vivere tutto. Troppo. Per sempre.

lunedì 26 dicembre 2022

Fire exit

"Che vuoi che ti dica amica mia, eravamo folli, folli. No, credimi, non era neppure più una questione di sesso. Che poi, uhm, a pensarci bene, non lo è mai stata. 

Nei sei stata testimone anche tu carissima amica mia, ricordi? L'aria intorno a noi era satura di elettricità e i nostri sguardi potevano rimanere incollati per ore, capaci di parlarsi senza pronunciare una parola. Dopo, oh dopo eravamo esausti, come se avessimo trascorso notti e giorni assetati e affamati e insonni a sopportare una tensione tale che avrebbe folgorato chiunque altro. Se ne accorgevano uomini e cose, potevamo spostare città e montagne. L'Universo si piegava al volere del nostro desiderio incontenibile. 

Che dirti amica mia, non ho risposte alle tue domande. Non lo so perché è accaduto quello che è accaduto: so solo perché è finito. 

Era questione di sopravvivenza, capisci? No, non capisci, va bene, hai ragione. E allora ecco, fammi pensare... come spiegare che, insieme, eravamo soggiogati da una malia? eravamo demoni posseduti, respiravamo l'uno dalla bocca dell'altra, bevevamo l'una la saliva dell'altro. Fondevamo e implodevamo in abbracci indemoniati che dell'amore non avevano nulla. Era una malattia, la malattia del possederci e del sedursi, con ferocia, come bestie. Per necessità. Perché non sapevamo farne a meno. Lui voleva bere il mio sangue e io volevo che fosse suo. A questo siamo arrivati. Ricordo l'eccitazione del predatore negli occhi, le labbra rosse, la confusione dei sensi, le gambe che si piegavano - in ginocchio, come una schiava. Governo la rotta del tuo desiderio - sono io la padrona. No, non è un'esagerazione, è quello che accadde. Ed è stato quello anche il punto di non ritorno: dovevamo salvarci. Da soli. Eravamo ormai ammalati e non parlo per metafore. Scontavamo ogni minuto d'amore con giorni di febbre, come se il nostro corpo supplicasse ristoro, e pace. E noi, invece, ci facevamo la guerra. Volevamo la guerra, volevamo annientarci, eravamo diventati due cannibali. È per quello che è finita, capisci ora vero? Mi chiedi se è stato un bene incontrarsi. Certo che lo è stato. Guardami ora: sono salva, e me ne prendo ogni merito. 

Cosa è stato per lui, mi chiedi? Non lo so, mia cara, non lo so. Potrei dirti: è stato pioggia e fuoco, e poi vento e tuono. E poi eco e poi ricordo, ma lui direbbe che è stato vuoto e mai pieno. Gli lasciai uno specchio, un dado e una lettera: credo abbia usato tutte e tre le cose per esorcizzarmi. Siamo stati fortunati a incontrarci, amica mia carissima. E più fortunati ancora ad allontanarci. Sei d'accordo, vero?"

sabato 17 dicembre 2022

Pulp vicious

 Di innocente, neppure il ricordo.

Mi arresi davanti alla corruzione e alle bugie. Diceva Steinbeck: sceglierò la vendetta più crudele, dimenticherò ogni cosa. E neppure io conosco modo più feroce per condannarti all'inferno: sottrarsi per sempre a quel ricordo che volesti contaminare, rendendolo uno spettacolo desolante e stucchevole, come un acino di uva appassito mangiato da onnipotenti vermi. Oh sì, grande è stata la mia vendetta. Come Giuditta che decapita Oloferne così tagliai la testa al serpente della vanità. Sarebbe stato dolce coccolare il disprezzo ma è stato ancora più dolce, incredibilmente dolce, cancellare la tua presenza. Dolce come quel sorriso nascosto tra le note e le parole di una canzone che mai più ci apparterrà.

mercoledì 22 giugno 2022

Fuck fuck fuck

 Fuck fuck fuck. 

Letterale e come imprecazione. 

Saresti esaltato dalla mia vita che di certo non e’ per i deboli di cuore. Ma tu un cuore non lo hai, o forse e’ sottochiave altrove, e quindi il problema neanche si porrebbe. Tra omerta’, macchiette e carrellate di personaggi alla moda di Sorrentino ne “La Grande Bellezza” incontreresti Cesare ma anche Bruto e faresti affari con entrambi.

Tolto il tailleur e i gioielli, buttati i tacchi in un angolo, mi rendo conto di aver bevuto troppo vino e mangiato praticamente nulla. 

Mi viene in mente una parola: ferocia. E’ con feroce noncuranza che il tuo strike perfetto ha distrutto l’unico birillo ancora in piedi: il senso di unicita’. L’avevi alimentato con cura, e io l’avevo coccolato per anni, perche’ quello stare insieme e – soprattutto – quel non stare insieme avessero un significato. Non unicita’ come in monogamia, che parola fuori moda, ma come quel sentirsi a pelle, quel ritornare sui propri passi come se nulla fosse accaduto benche’ tutto fosse cambiato, quell’essere indelebili, ineluttabili, incostanti e orbitanti in galassie lontane dai comuni mortali. Esseri speciali che vivono in un mondo simbolico noto solo a loro, cosi’ deflagrante per chiunque altro. 

(Invece, non c’e’ mai stato nulla. E non te lo posso perdonare.)

Chiamo a testimoniare i demoni e le streghe e decido di arrendermi alla lussuria delle parole: scrivere – oh, scrivere è la mia magia preferita. Scrivere è il mio modo di esercitare il controllo, scrivere bene appaga il mio ego, avere un pubblico la mia vanita’. 

In fin dei conti, i pensieri non possono essere condannati. Ma neppure andrebbero condivisi. E questo perché ne faresti scempio, come un predatore che ha appena azzannato alla giugulare la sua preda. Io non racconto mai una storia: scrivo e riscrivo sempre dello stesso frammento di tempo, non vado ne’ avanti ne’ indietro perche’ una trama, in questi pezzi, non c’e’. Nessun inizio, e nessuna fine. Per una volta, come piace a me. Compongo e scompongo cio’ che e’ reale per volutta’ e per vendetta, praticando l’anafora come religione di vita. Maledizione all’estetica che ha sempre incasinato tutto.

giovedì 27 gennaio 2022

Belfast

 È difficile scrivere di questo film in maniera scevra da sentimenti molto personali, primo fra tutti il fatto che Belfast è casa mia da 12 anni ormai. Immagino sia per questo che riesco perfettamente a comprendere come, nel contesto nordirlandese, possa essere un film che delude alcuni e che tradisce altri, accontentandone pochi. Tuttavia, va riconosciuto a Branagh il fatto che, per una volta – e finalmente, aggiungo io – i Troubles vengono raccontati in modo intimo, senza grandi proclami politici anzi, con un voluto disinteresse per la “big picture”. Il film inizia e finisce in una strada, poche case, il tragitto per andare a scuola, i negozi di quartiere: è una visione che si concentra sugli individui, sui legami familiari e sulle emozioni. Dimenticate tutta la retorica fiorita intorno alla questione nordirlandese, perché nel film ne troverete davvero poca, e non lo sottolineo con disappunto. 

Spesso sento dire che noi italiani abbiamo tanto in comune con gli irlandesi. Ciò che mi si è palesato, dopo essermi goduta il luminoso bianco e nero di Haris Zambarloukos, è piuttosto che le comunità che vivono o hanno vissuto emigrazione, povertà, conflitti hanno lo stesso modo speciale di stare insieme. Perché dove non c’è nulla, o molto poco, resta solo il mutuo soccorso, i legami di sangue, la famiglia; rimane il ballare per strada stringendosi a quei vicini che rappresentano la vera ricchezza, quella rete di assistenza che offre senso e garanzia di sopravvivenza. È dunque la storia dei vinti che si assomiglia dappertutto. 

Eppure, son anche convinta che questa città, Belfast, abbia un’anima propria, che la rende diversa da altri luoghi. La si rintraccia in certe battute – chissà come saranno rese col doppiaggio - in quell’humor nero e un po’ grottesco che i nord irlandesi coltivano con orgoglio e che nel film è spesso presente, pur se sotto traccia. 

Un'ultima considerazione sugli attori. Jude Hill ruba la scena a tutti sebbene sia fin troppo facile farlo nei confronti di un Jamie Dornan particolarmente inespressivo, a differenza ad esempio della sua controparte femminile Caitriona Balfe, che regala al personaggio di Ma maggiori nuance interpretative. Judi Dench è sempre una garanzia, Ciarán Hinds si accaparra alcune delle battute migliori. Sorriderne insieme ad estranei, in un cinema inusualmente pieno di mercoledì pomeriggio, è stata senza dubbio un’esperienza emotivamente intensa. E questo mi basta per dichiarare, forse con una certa leggerezza, che il film vale la pena di esser visto. Possibilmente al cinema, possibilmente con uno sguardo privo di giudizi storici. 

sabato 22 gennaio 2022

Alfa

 Auto sportiva, ovviamente; blu aziendale, naturalmente.

Orologio importante al polso, sguardo sfacciato, sorriso sornione, chiacchiera blasé. Gemelli nelle occasioni speciali, fede al dito anche in quelle che lo son meno. Tributi convincenti all’oroscopo che ripaga con la massima benevolenza delle stelle in ricchezza, fama, prestigio.

Trasudi potere da maschio alfa, di quel genere per cui metà della popolazione femminile si strapperebbe le mutande ad un solo cenno e l’altra metà mente. Il politicamente corretto va a farsi benedire davanti all’erotismo atavico, arcaico e fatale che sprigioni. Niente che implichi una relazione umana vagamente accettabile: solo un rimescolamento di ormoni, una bomba atomica di lussuria e maledizioni. Maledizioni come quelle che tiro a me stessa per averti immaginato alla guida, essermi inebetita a guardare la scena in slow motion e aver iniziato a provare una vaneggiante lascivia alla quale i miei neuroni, nutriti a pane (gluten free) e femminismo si ribellano con forza.

Che fosse la gioventù a renderti irresistibile? La bellezza da dio greco, con tutti i muscoli in vista; il cipiglio del Marine nel taglio di capelli cortissimo; l’abbronzatura da surfista californiano strategicamente messa in risalto dall’essere sempre vestito di banco; sigaro e cicchetto per puro edonismo: semplicemente perfetto. Intossicavi con il tuo profumo di tabacco e cioccolato, davi alla testa come una vodka russa. Ammutolivi il pubblico con una carica erotica fuori dal comune ancora prima di scegliere chi sarebbe stato il destinatario della stessa. “Una notte con te può cambiare la vita”, ripeteva il coro della tragedia che si consumava sotto i fuochi d’artificio del tuo ego. E aveva ragione. Quella bellezza abbagliante si è spenta con gli anni, ma è stata sostituita da qualcosa di ancora più ancestrale: l’incarnazione del potere. Quel potere che hai sempre bramato e che tiri via a morsi da chi ti circonda. Tu te ne nutri e il sapore di quel sangue si pregusta anche sulle labbra di chi ti desidera. Seducente per vocazione, necessità e destino, coltivi quella malìa per essere osannato e voluto, per fare e disfare vite con uno schiocco di dita. Una specie di malsana pubblicità anni ‘50 in cui precipiti sì nel vuoto di un grattacielo ma poi, con noncurante presuntuosa eleganza, fumi l’ennesima sigaretta arrotolata con le illusioni. Altrui.